Percorrono sentieri noti solo a loro, seguono tradizioni quasi segrete, che si mantengono gelosamente solo in famiglia o tra maestro e discepolo. Nella nebbia del mattino, scavano concitati seguendo il minimo accenno del cane, poco più che un’intuizione: sono i cavatori di tartufo, inevitabilmente malati della “febbre della cerca”, una passione che può cogliere chiunque e che non solo offre un reddito proficuo in territori spesso disagiati, marginali o secondari, ma fonde assieme tradizione, cultura, storia. Una vera scelta di vita legato all’intera economia dei territori dove nasce il prezioso tubero. Perché il “cercatore” o “trifolao”, quando è periodo giusto, non conosce ferie né malattia, non lo ferma il gelo o la nebbia, esce tutti i giorni della settimana, domenica compresa, sempre prima dello spuntare del sole. Che si cerchi il famoso bianco (Tuber magnanum), il pregiatissimo Nero (Tuber melanosporum), lo scorzone estivo (Tuber aestivum) o una delle altre varietà minori e locali (più di dieci in tutta Italia), la “storia” della cerca è sempre la stessa: passione, sacrificio, segretezza, tradizioni.
Per questo, il Comune di Vallo di Nera, famoso per il suo Nero del Nera, è diventato capofila tra gli Enti promotori della Candidatura a Patrimonio Immateriale dell’Umanità della Cerca a Cavatura del Tartufo in Italia. Si deciderà proprio nel 2019, ma intanto questo insieme di tradizioni orali, folklore, usanze e costume, detti e dicerie, esperienze e competenze merita di essere tutelato prima che rischino di scomparire. Sì perché i “tartufari” italiani non hanno ultimamente vita facile. Per primo ci si è messo il cambiamento climatico: estati secche e calde, poco congeniali al prezioso tubero che ha bisogno mediamente di 45 giorni di pioggia estiva per produrre le sue spore. Non da meno la distruzione dei boschi e di intere valli, a favore di coltivazioni industriali, che ha peggiorato la situazione: il tartufo vive in simbiosi con alcune piante (soprattutto querce e lecci) ed ha bisogno della presenza di alcuni animali selvatici (cinghiali, tassi, ricci, ghiri e volpi) che spargano le sue spore al momento della perfetta maturazione, mentre se ne cibano. Condizioni naturali e selvatiche, che sono quasi scomparse in certe aree agricole d’Italia. Colpo di grazia, i tartufi arrivati dall’Est Europa, soprattutto Romania, Albania, Serbia e Croazia. Questi tuberi d’oltralpe, per quanto appartengano alla stessa specie, crescono in ambienti profondamente diversi per clima, composizione chimica del suolo, fauna, flora e persino soleggiamento.
Risultano quindi profondamente differenti dal tubero nostrano anche per qualità organolettiche, mancando del caratteristico profumo e sapore. Per colmare questa lacuna, soprattutto nelle preparazioni lavorate industrialmente, vengono legalmente addizionati alcuni aromi, non sempre naturali, come il Bismetiltiometano, un derivato dal petrolio, che, con il suo odore di gas, riesce a mascherare la carenza dell’inconfondibile profumo. Il tartufo orientale riesce così rovinare il mercato ai nostri trifolai, con prezzi stracciati nella vendita all’ingrosso, ma senza portare un vantaggio al consumatore finale, che rischia di pagare un prezzo elevato per un fungo ipogeo aromatizzato al gas, invece che per il nostro prezioso tubero. Ancora più grave il problema dell’invasione del tartufo cinese (Tuber Indicum), che non solo non possiede le stesse qualità dell’italiano, ma appartiene anche ad una specie diversa. Più adattabile, invasivo e resistente, ma definitivamente meno profumato, il tartufo cinese potrebbe facilmente sostituirsi o ibridarsi con il nostro nero pregiato, mettendo a rischio la sua sopravvivenza genetica. Vallo di Nera, quindi, ha chiesto l’intervento dell’Unesco per proteggere non solo il suo amatissimo Nero, ma anche tutta la cultura che ruota attorno al Re dei funghi. Gli strengozzi, per esempio, sono una pasta fresca che qui si produce rigorosamente a mano e che un tempo venivano cucinati solo in occasione delle feste invernali con i primi tartufi neri. O la “ricotta salata” un presidio slow food che a Vallo di Nera ha il suo sito di produzione più settentrionale e che era il formaggio con cui si condiva la pasta al tartufo. Ora aspetta anche al turista e al compratore difendere i suoi diritti, le sue papille gustative e le sue tasche, controllando sempre con attenzione l’etichetta. Il vero tartufo viene conservato rigorosamente senza aromi, i prodotti a base di tartufo vero devono contenere solo aromi naturali. Un viaggio sui luoghi di produzione e raccolta, come Vallo di Nera, classificato come Uno dei Borghi più Belli d’Italia, può essere un’occasione per imparare di più su questo prodotto tanto apprezzato e costoso. Alcune aziende di lavorazione e alcuni tartufari offrono la possibilità di visitare le strutture o anche di passare una mattinata in cerca del prezioso tubero, accompagnati dai cani e dagli esperti, per scoprire se si è contagiati dalla febbre della cerca (per informazioni: Comune di Vallo di Nera, tel.0743.616143).