Benvenuti nella terra dei greci di Calabria
Tortuose stradine s’avviluppano tra i monti. Quale seguire? Niente indicazioni. Non passa un’anima. Canicola e silenzio. Arrivare a Cernatali, sperduta contrada a 9 chilometri da San Giorgio Morgeto, è come compiere un viaggio sulla Luna. Nell’Aspromomte calabro, arcaico e selvaggio, succede così. Sembra di toccarli gli orizzonti, ma sfuggono di mano, svaniscono. E devi ricominciare da capo.
Fosse l’epoca d’oro della zampogna sarei guidato dal suono dello strumento. L’eco di quel sordo, allegro muggito galleggiava a lungo, di valle in valle. Guidava il cammino. Erano gli anni in cui suonatori e venditori di zampogne affollavano i sentieri. Quando poi arrivava il pellegrinaggio alla Madonna della Montagna di Polsi era una festa: se ne vendevano a decine. Nell’attesa ho tutto il tempo di affettare il pane di grano jermano che mi ha regalato una donna di Canolo. Con una fetta di pecorino di queste montagne diventa cibo degli dei. La donna l’ho incontrata poche ore fa, in uno dei forni del paese.
Dopo aver impastato nel cuore della notte e aver messo a lievitare le forme sulle pale, aspettava la cottura delle pagnotte. Una faticaccia. “È più facile partorire un figlio”, mi ha detto, “che impastare pane jermano”. La pasta dura e filante s’appiccica alle mani. Bisogna dare pugni da pugili. I forni sociali di Canolo sono una vecchia tradizione paesana. Il comune li mette a disposizione della comunità e le famiglie li affittano per due euro al giorno. Le donne si mettono all’opera di buona lena. Portano fasce di legna raccattate qua e là nei boschi. Accendono il fuoco, Impastano, fanno lievitare, infornano. Arrivano da ogni parte per acquistare il pane jermano di Canolo, un grano antichissimo. Alcuni, come Laura, ci fanno addirittura la birra. Che va subito a ruba però.
Viaggio a Cernatali, terra di zampogne.
All’improvviso il ronzare di un’Apecar rompe il silenzio. È un giovane che porta un carico a Cernatali. Un colpo di fortuna. Dietro di lui arrivo nella vecchia capitale della zampogna in meno di dieci minuti; se per capitale s’intende un luogo sperduto tra i monti, popolato di poche anime, quattordici per la precisione. Un’arcadia calabra ferma ai tempi d’Omero tra panorami aspri e selvaggi. Veniva da qui Michele Monteleone, detto Ziu Cheli di Ferru, il leggendario costruttore di zampogne, le ciaramèddhi.
Le costruiva per i suonatori di tutta la provincia. E le riparava. Per dire del legame che univa gli zampognari a Monteleone, basta raccontare di quando, era il 1948, la zampogna di Pietro Navello da Gallicianò incominciò a perdere colpi. Doveva correre da Ziu Cheli. Così Pietro insieme a un amico, un altro zampognaro, partì a piedi dal paese fino a Melito Porto Salvo, sei ore più o meno. Aggiunsero due ore di treno per Gioiosa Ionica. E altre sette di mulattiere fino a Cernatali. Un giorno di viaggio. Naturalmente ogni tanto, per rallegrare il cammino, partiva il suono delle ciaramelle. E così la fatica non si sentiva.
Inutile dire che la zampogna riprese a funzionare meglio di prima. Sì perché gli strumenti di Zio Michele erano pezzi unici, opere d’arte intagliate a mano nel legno. Oltre alla suono emettevano il respiro di una terra arcaica. Mariangela, la figlia quasi ottantenne di Michele, mi ha anche mostrato una sua centenaria zampogna del padre. Me l’ha mostrata come si svela una reliquia, srotolandola da un panno di velluto. Stava nel soppalco di una oscura spelonca, prelevata dal giovane nipote salito su una vecchia scala. Era un maestro dell’intaglio Monteleone. E nessuno sapeva usare la forgia meglio di lui.
Col legno poi faceva anche bottiglie e bicchieri. Persino le trottole per i bambini di San Giorgio Morgeto. Ogni tanto, andava a prendere il bosso, la preziosa materia prima, nella villa comunale di Cittanova. Questo però era vietato e non si deve sapere.
È tutta qui Cernatali: un recinto di capre, un vecchio forno, casette da fattucchiera di pietra e lamiera costruite a gradoni sul precipizio. Alla fine degli anni ’70 ci viveva un centinaio di persone. Ogni nucleo familiare aveva il suo jazzo. Oggi ci abitano tre famiglie. Non tutti anziani però come si legge sul web. Il nipote 17 enne di Laura per esempio, ha lasciato la scuola, l’istituto agrario. Vuole fare a tutti i costi il pastore. Lontano da tutto, vicinissimo alle proprie radici.
Da Monteleone, a prendere lezioni di zampogna, veniva anche Peppino Romano, uno degli ultimi costruttori dell’arcaico strumento. Abita ad Antonimina. Il suo caotico laboratorio è una sorta di mecca per i giovani zampognari. Vengono qui a osservare i gesti lenti del maestro, a perfezionare la tecnica, a chiedere consigli, a tenere improvvisate jam session cariche d’energia.
Il giardino calabrese
Basta poco da qui per arrivare alla Casa delle Erbe di Marò D’Agostino, raro esempio di giardino calabrese alle pendici di Monte Tre Pizzi. Un altro angolo di mondo sospeso nel tempo, vegliato da una meravigliosa, rarissima quercia a salice che sembra un ombrello gigante. Dovreste vederlo a maggio il giardino, quando esplode la fioritura dei 240 rosai che Marò ha installato. “Il giardino calabrese”, spiega, “è un unicum in cui convivono diverse situazioni: frutteto, orto, agrumeto, uliveto”.
È in questo microclima ideale che ha creato il suo regno. Ci cresce un numero impressionante di piante e di erbe spontanee, tanto che lo chiamano la “foresta”. Era il giardino calabrese la tavola imbandita da cui le passate generazioni di calabresi attingevano a piene mani per usi gastronomici, cure mediche, rimedi della nonna. Marò è anche un’architetta paesaggista e così ha trasformato la vecchia casa di servizio in una meravigliosa dimora. Ha conservato travi e infissi di castagno, lasciando intatte le vecchie destinazioni d’uso legate ai cicli della terra.
La libreria per esempio è stata ricavata dove un tempo si tenevano i bachi da seta. Non si faceva solo la seta però, anche lino, ginestra, canapa. Altri tempi. Altri mondi, forse. La storia di Marò ricorda la vicenda di Orlando Sculli, il professore che in un campo di Ferruzzano, in località Arie Murate, ha salvato dall’estinzione piante dimenticate e remoti vitigni, 72 genotipi per la precisione, dal profilo molecolare unico, alcuni dei quali risalenti al Mediterraneo antico. Gli stessi vitigni che utilizzavano i Greci e gli antichi Romani.
In questo campo delle biodiversità crescono la melanzana rossa di Mormanno, la rosa di Ferruzzano, il fico di Brancaleone, l’ulivo di Ardore, il melograno di Monasterace, la menta al bergamotto, il melo di Caulonia alto meno di un metro. Ma soprattutto, all’interno del vicinissimo e incontaminato Bosco di Rudina, intatto esempio di macchia mediterranea dove nidifica il gufo reale e vive un raro anfibio che fa strani versi, l’ululone dal ventre giallo, il professore ha catalogato giganteschi palmenti d’epoca ellenica e romana. Sono intagliati a colpi di piccone nella pietra. Nella vasca più grande, buttìscu, si pigiava l’uva, e in quella più piccola, pinàci, scendeva il mosto. E infatti, già più di 2500 anni fa, il mar Ionio che luccica poco lontano da qui, era un via vai di barconi carichi di otri vinarie destinate ai maggiori porti del Mediterraneo.
Anche i mosaici di Villa Zephyros, nella vicina Ferruzzano Marina, rimandano suggestioni antiche. È qui che vive lo scultore Domenico Carteri, l’artista che in trent’anni ha trasformato la sua dimora in una sorta di casa-mosaico, un cantiere aperto di creatività. I tasselli colorati raffigurano fiori, piante, polpi, delfini, scene bucoliche che Mimmo ha elaborato durante gli anni di lavoro agli scavi di Pompei. Le tessere multicolori luccicano sulle mura, nel cortile, tra porticati, finestre e fontane. Tappezzano anche l’immensa veranda che da sul mare, di fronte alle onde spumeggianti del mito. E infatti al mio passaggio, stesi a terra come eroi disarcionati, s’allungavano le enormi sagome dei Giganti, i Protogonoi, le figure mitologico-apotropaiche dei greci di Calabria.
Pietra Cappa
Tra le montagne di Natile Vecchio invece, si nasconde un mondo ancestrale popolato da pietre gigantesche e leggende. Man mano che si procede lungo il sentiero, sfilano aspre montagne, fitti boschi, radure. Nella natura primordiale volano rapaci, strisciano serpenti. Si sentono rumori, strani richiami. Finché, solitario come un’isola sopra un oceano verde, si staglia il monolito di Pietra Cappa, mammellone d’arenaria alto 140 metri, nato 15-25 milioni d’anni fa, tondo, bucherellato, il più grande e magnetico d’Europa.
E allora la sensazione d’aver sbagliato epoca diventa certezza. A occhio e croce siamo finiti nel Giurassico Superiore, sotto un cielo popolato da pterodattili. D’ora in poi dovremo tendere l’orecchio: l’incontro ravvicinato con velociraptor e brachiosauri potrebbe essere imminente. E invece siamo nel cuore della Valle delle Pietre, misterioso, antichissimo luogo di romitaggio di monaci basiliani che celebravano culti nei loro santuari di pietra e poi andavano di casa in casa, di valle in valle, a questuare. Da quassù il panorama è formidabile. S’allunga dalla fiumara Bonamico fino al mare. Ottimo punto di osservazione per le vedette di un tempo. La fiumara era navigabile ed era saggio aguzzare la vista nel caso si stagliasse tra i flutti qualche sinistro veliero di pirati.
Non siamo molto lontani qui da San Luca, il paese di Corrado Alvaro. E di Stefano De Fiores, illustre mariologo e docente alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. La casa-museo dello scrittore, a tre piani, alta e stretta, di fronte alla Chiesa di S. Maria della Pietà, sta proprio nel cuore del vecchio borgo. Tipo ermetico, taciturno il letterato, grande moralista e moralizzatore. “Aveva il carattere di un pugno chiuso”, dicono. L’autore di Gente in Aspromonte è stata una delle menti più autentiche e profonde del panorama letterario italiano, eppure il legame con le proprie radici non è mai stato facile.
La gente, poverissima, se ne stava tutto il santo giorno nei campi. E quando tornava a casa, all’imbrunire, percorreva sempre le stesse maledette, infami mulattiere. “Che cosa ha fatto Alvaro per noi”?, dicevano, “nemmeno una strada”. Nella casa troverete i cimeli dello scrittore, la valigia da viaggio, la vecchia macchina da scrivere, un autoritratto a schizzo e all’ultimo piano la camera da letto con le scarpe e l’elegante completo grigio. Ci sono naturalmente le vecchie edizioni dei suoi libri e le traduzioni. “Un lavoro titanico di ricerca, che continua tuttora”, mi ha spiegato Sebastiano Romeo, segretario della Fondazione Alvaro, “dato che molte opere dello scrittore sono ancora disperse. Alcune nel modo più rocambolesco”.
Non lontano da San Luca, un altro luogo letterario, Brancaleone Marina, vive di luce riflessa. La piccolissima, claustrale stanza lungo Corso Umberto I 117 infatti, fu la “casa”di Cesare Pavese durante il confino, dal 5 agosto del ’35 a metà marzo del ’36. È arredata come un tempo: un misero letto, cassapanche, la scrivania, la lampada a carburo. Persino l’umidità e la solitudine, dice qualcuno.
Pavese passava il tempo a giocare a carte al Bar Roma; dava lezioni a un ripetente, studiava il greco fino a non poterne più, fumava la pipa. Era così che tirava a far sera. Fu in questa stanzetta che il futuro suicida iniziò a scrivere Il Mestiere di vivere, seduto sulla sedia, con le spalle rivolte al mare tanto odiato che brillava poco lontano, oltre la ferrovia. Ogni tanto se ne andava tra i meravigliosi ruderi di Brancaleone Vetus, dove accanto alla chiesa-grotta col rilievo armeno della croce e del pavone inciso da remoti monaci orientali, immaginò rocce rosse lunari e un Dio incarnato. Scortato da qualche maresciallo con le manette sempre pronte, il “confinato” sarà sicuramente andato a visitare anche la vicina Bruzzano Zeffirio, magnetica città fantasma tra ulivi secolari, risalente all’XI sec, coi resti del castello e l’intatta porta Carafa.
Da qui fin quasi a Reggio Calabria, annidati tra selvagge montagne, canyons e dirupi, spuntano altri villaggi fantasma spopolati da terremoti e alluvioni, insediamenti che per secoli, racconta Vito Teti nel suo bellissimo libro, Il Senso dei Luoghi, si sono contesi il primato di paese più disgraziato della Terra: Pentedattilo, con le cassette annidate sotto cinque dita di roccia, una delle visioni più arcaiche del Vecchio Continente; Casalnuovo dove ogni giorno un pastore porta le sue capre e poi si mette ad aspettare, forse per l’eternità, all’ombra della vecchia chiesa; Africo Vecchia, svuotata dall’alluvione del ‘51, “sembrava la fine del mondo”, raccontano i vecchi africoti, ci si arriva in un paio d’ore a piedi, lungo uno sterrato traforato di buche; la stessa Ferruzzano, costruita su rocce d’arenaria che s’incendiano di rosso al tramonto. Ovunque, dove un tempo c’era la vita, oggi regna la solitudine: ruderi cresciuti sopra sudari di dolore.
Greci di Calabria
È questo il cuore degli ellofoni di Calabria, villaggi dove si parla greco da 2500 anni: Roccaforte, Gallicianò, Condofuri, la spettacolare, sinistra ghost-town di Roghudi, con le case in bilico sulla fiumara, Ghorio di Rogudi, e poi Amendolea col castello arroccato sulla vetta del monte, a guardia dell’immensa omonima cicatrice bianca che corre verso il mare, una delle apparizioni più ipnotiche di quest’angolo di mondo. Luoghi remoti, sepolti dal tempo e dalle pietre. Ci si arriva lungo strade vertiginose, scavate sull’abisso. Oppure non ci si arriva affatto perché ogni tanto le frane seppelliscono di massi la carreggiata. Affiorano anche enigmatiche, stranissime formazione geologiche.
E le loro sinistre leggende. La Rocca del Drago per esempio, poco lontano da Roghudi, con strani cerchi, simili ad occhi in rilievo, vegliata dal mostro che custodisce un tesoro. E la vicina Caldaia del Latte coi sette mammelloni dove il mostro va a nutrirsi. Quando non divora i bambini. La leggenda parla anche del sacrificio di un capretto, di un bambino malformato e di un gatto nero. E delle Naràdi, figure mitologiche, metà donne e metà equini, che tendevano agguati alle femmine per accoppiarsi coi loro uomini.
Prima o poi, sempre percorrendo paesaggi di primordiale, desolata bellezza, arriverete a Bova, la capitale dei greci di Calabria. L’interessantissimo museo della lingua greco-calabra dedicato al glottologo Gerhald Rohlfs, sta proprio all’inizio del paese, il migliore epilogo di questo piccolo viaggio della memoria. Troverete documenti, foto d’epoca, antichi reperti recuperati da quest’ometto segaligno con gli occhialini. Lo chiamavano u tedescu, ma era l’archeologo della parola che nella prima metà del Novecento effettuò appassionanti “scavi linguistici”, conversando con la gente nei campi, per strada, sull’uscio di casa.
In un museo però la lingua muore. E inoltre nell’area grecofona della Calabria, il greco non lo parla quasi più nessuno, solo qualche anziano a Gallicianò. Così sono nati corsi di lingua greca, tra questi la scuola To ddomadi greko di Maria Olimpia Squillaci, linguista con un dottorato a Cambridge sul rapporto tra il greco di Calabria e il dialetto locale. Ma soprattutto figlia di un padre, Tito, che le ha parlato greco dalla nascita. Maria è anche una delle ispiratrici dell’associazione ellenofona Jalò tu Vua. Pensavo fosse un’attempata signora con rughe di saggezza e invece è una giovanissima figlia di questa terra. Chissà! Forse, un giorno non lontano, le madri della Bovesia torneranno a dire agapimu, amore mio, al loro pargoletto appena nato.
I SEGRETI DI CITTANOVA
Il cuore verde di Cittanova, l’ottocentesca Villa Comunale Carlo Ruggiero, ospita un meraviglioso orto botanico affollato di giganteschi, vetusti alberi: sequoie della California, cedri del Libano, l’albero dei Tulipani, querce rosse, palme delle Canarie.È all’ombra delle maestose fronde, appena uscita dai restauri, che luccica un gioiello: il roseto in bronzo realizzato nel 1974 da Alik Cavaliere, l’unica scultura all’aperto d’Italia di uno dei più geniali artisti del Novecento. Alik era figlio di Alberto Cavaliere, il poeta cittanovese padre della chimica in versi. Ma soprattutto fu l’uomo che attraverso i canoni della scultura greca antica, utilizzando canali di fusione fatti col legno di sambuco, rivoluzionò la scultura. La trasformò in una sorta di forma d’arte “attraversabile”, quasi teatrale. Nessuno prima di lui era mai riuscito a declinare in bronzo la delicatezza di un fiore, coi petali, le spine e tutto il resto. A due passi dal giardino botanico,Villa Academy è un centro di produzione culturale ed enogastronomico, diretto dal regista-sceneggiatore Nino Cannatà e dal fratello chef Enzo. “Cerchiamo di dare ospitalità alle realtà culturali del territorio”, mi ha spiegato il regista. “A Salvatore Insana per esempio, giovane che lavora tra fotografia e video art, abbiamo dedicato la prima “residenza” d’artista, con tanto di catalogo”.
C’è anche una piccola Lourdes locale, la fiumara Vacale dalle acque “miracolose”. Occorre allontanarsi dal paese. Ma ne vale la pena. Soprattutto se vi ritrovate con ferite ed escoriazioni. Un paio di abluzioni e tutto dovrebbe risolversi. In molti lo confermano, non solo gli anziani. Persino una cantante giapponese. Aveva strane macchie sul viso ma sono bastati pochi sciacqui nel Vacale per ritrovarsi la pelle liscia come seta. Sono in molti, d’estate, a bagnarsi sotto le cascatelle, col sapone di Marsiglia rigorosamente fatto in casa.
INFO UTILI
- DOVE DORMIRE
Condofuri: Agriturismo Il Bergamotto, via Amendolea, tel. 347.6012338, meraviglioso casale in pietra sopra la fiumara, immerso in una piantagione di bergamotto. Gerace: Agriturismo Barone Macrì: contrada Modì, tel. 0964.356497, www.baronemacri.it, casale tra ulivi e vigneti, piatti con prodotti aziendali. - DOVE MANGIARE
Antonimina: Do’ Priuri, via Consalvo 8, tel. 0964.312031, piatti della tradizione, il tempio del leggendario Mimmo. Staiti: La Taverna dei Santi, vico I Piazza Vittoria 12, tel. 388.9729914, gnocchi di zucca, verza con salsicce, vellutata di castagne con funghi. Siderno Marina: U’Ricriju, via Circonvallazione nord 173, tel. 389.9687228, piatti grecanici di Francesco Trichilo, lo chef-musicista: musica arcaica con organetto, lira e zampogna. Bova: Al Borgo, via Borgo 21; tel. 338.9006739, antipasti leggendari, carni di capra e dolce al bergamotto. Kalos Jero, via Campo 5; tel. 366.3582213, www.agriturismokalosjero.it: prodotti del territorio interpretati secondo la cultura grecanica con recupero delle ricette e delle culture in via d’estinzione. - DA VEDERE
Bova: Museo della Lingua Greco Calabra G. Rohlfs, via Sant’Antonio, tel. 0965.762013 e 342.3816707, www.museogerhardrohlfs.it. Cittanova: La Villa Academy, via V. Zito 85; tel. 351.9919901. San Luca: Casa di Corrado Alvaro, via Giuseppe Garibaldi 8; tel. 0964.986017 info@fondazionecorradoalvaro.it (Sebastiano Romeo). - COSA COMPRARE
Bruno Trimboli, tel. 327.0107986, meravigliosi bastoni e collari di capra a motivi greco-bizantini intagliati nel gelso nero. - BIBLIOGRAFIA
I vitigni autoctoni della Locride, O. Sculli, ed. Città di Calabria; Il senso dei luoghi, Vito Teti, Donzelli. Diario di un viaggio a piedi, Reggio Calabria e la sua provincia E. Lear, Laruffa. La Signora di Ellis Island, Mimmo Gangemi, Einaudi. - FILMOGRAFIA
Aspromonte, la terra degli ultimi, M. Calopresti (2019). Anime Nere, F. Munzi (2014). - UFFICI TURISTICI
Pro Loco Brancaleone (Carmine Verducci), tel. 347.0844564, www.prolocobrancaleone.it, visite guidate nel territorio. Ferruzzano: visita palmenti/bosco di Rudina/campo delle biodiversità, prof. Orlando Sculli tel. 340.9954502, Santo Panzera, tel. 340.3885483; Villa Zephyros, tel. 339.5735030 (Domenico Carteri). Escursione Pietra Cappa/ Valle delle Pietre, Bruno Trimboli, tel. 327.0107986.